Mountains

23/02/2019

Quale modo migliore, per esorcizzare una paura, dello scrivere della paura stessa mentre se ne è in preda?

Beh, si parla sempre della mia cara fobia del non sapere cosa si ha sotto i piedi, che d’ora in poi chiamerò fobbiadellaccquaalta (o “FAA”). In questo momento sono su un movimentato traghetto, diretto verso Ullapool, da Stornoway. Essendo seduto, posso dire di sapere cosa ho sotto i piedi: una moquette di dubbio gusto. Ma sotto la moquette? Le auto parcheggiate, la chiglia della nave, ok… ma sotto?

L’oceano.

Brr.

Non sembrava così forte il vento, dal molo, fatto sta che il traghetto delle 11, quello che avremmo dovuto prendere, è stato cancellato e questo su cui siamo era a sua volta a rischio. Non una delle trasferte acquatiche più tranquille della mia vita, sicuramente. Non riesco a smettere di guardare le onde, delle quali ho tanta paura. Scrivo e guardo, guardo e scrivo. E penso: “Ma se va giù che si fa? Io ho lo zaino con l’attrezzatura fotografica, c’è la mia vita qui, c’è tutto il girato di questi giorni, ma forse l’hard disk allo stato solido riesco a salvarlo, ma forse…”
E poi un’onda si infrange sulla chiglia e si alza fin sopra il limite superiore dell’oblò, inondandolo di meravigliosa, terrificante acqua salata. […]
Smetto di scrivere e incollo gli occhi al vetro, con litri e litri d’acqua che scendono giù.

Poi un’altra onda, un’altra e un’altra ancora. Tutte le turbolenze che non ho beccato in aereo nel 2018 le sto scontando ora, in traghetto. Buffo come io soffra moltissimo il mal d’auto ma quasi per nulla il mal di mare. […]

Nel frattempo è passato un abbondante quarto d’ora all’insegna delle sberle d’acqua contro l’oblò, ma io mi sono tranquillizzato. Si, perché ad un certo punto provo a razionalizzare, vedo scozzesi che fanno colazione a botte di uova e wurstel, bambini che giocano e si cappottano felici e penso che forse una possibilità al capitano di questa bagnarola posso anche dargliela, che andrà tutto bene e che non avrò bisogno di infilarmi l’ssd nelle mutande nella speranza di non perderlo in mare.

In questi giorni ho avuto modo di provare ogni sorta di emozione nei confronti di questo mio particolare rapporto con “la profondità”; ho visto per la prima volta in vita mia spiagge chilometriche essere completamente inghiottite dalla marea, disegni meravigliosi e stravaganti lasciati sulla sabbia dall’acqua in ritirata, onde gigantesche (almeno per me) illuminate dalle prime luci del mattino infrangersi su sassi colorati, per poi indietreggiare e tornare ad essere parte dell’oceano. Ho visto meraviglie di architettura naturale come Mangersta o Shawbost, di fronte alle quali sono rimasto – come di consueto – stendahlizzato, a bocca aperta… per poi pensare, ovviamente: “Chissà cosa c’è lì sotto…” e di immaginarmi lì, sulle rocce, a cercare il coraggio per immergermi e raggiungerle a nuoto. Chissà se lo avrei mai trovato. E penso a dove sia, per me, il confine tra il “mi cago sotto” e il “sono troppo curioso”. Probabilmente, riuscendo a vedere il fondale, sarebbe tutto più semplice.

In questi giorni abbiamo (e ho) ascoltato molta musica ma c’è un brano in particolare che riesce a centrare in pieno il mood “in preda al quale” sto scrivendo, tanto da dare il “titolo” a questo “capitolo” della mia vita (e del mio “blog”). Un brano che mi sta particolarmente a cuore, così come la scena al quale è indissolubilmente legato, una scena che mi ha fatto letteralmente tremare quando l’ho vista per la prima volta, al cinema. Se sono stato/sarò anche solo minimamente capace di comunicare, con questo scritto, la mia condizione emotiva, non serve aggiungere altro in merito alla musica; spero che sia così, pertanto ve la lascio qui sotto (e vi lascio anche la scena del film, una piacevole digressione).

A proposito di “scene”: una in particolare, nei giorni scorsi, mi è rimasta particolarmente impressa, lasciando un segno discretamente indelebile e sconvolgendomi un pochino: le onde a Dal Beag, all’alba. Quella mattina For mi ha portato su questa spiaggetta molto bella, in un’insenatura, così piccola e carina che a vederla, al di là dell’imponenza dei cancelli di roccia che ne delimitavano “l’ingresso”, faceva tanto “gita tranquilla con picnic e cani al seguito” (i tanto amati cani, portatori sani di impronte sulla sabbia).

Ma le onde…

Queste onde mi hanno spezzato il fiato, credo di essere rimasto immobile per interminabili minuti con lo sguardo calamitato lì e i brividi che correvano lungo la schiena.
Tremavo. Sono abbastanza sicuro di essermi commosso, ad un certo punto, o forse era soltanto il vento negli occhi. Ogni tanto sentivo l’impulso di afferrare la fotocamera e immortalare tale spettacolo ma qualcosa mi tratteneva dal farlo, come se volessi essere prima sicuro di aver assorbito tutto lo spettro di sensazioni, dalle più palesi alle più celate, di cui quello scenario mi stava (letteralmente) inondando. Una dopo l’altra le onde si abbattevano sulla superficie dell’acqua, in un fragore che si mischiava al sibilo del vento tra i fili d’erba e ti proiettava in un’altra dimensione; non ero in grado di sentire nulla al di fuori di quel “suono” né di vedere nulla al di fuori dell’acqua. Ad un certo punto credo di essere stato talmente risucchiato da quel vortice di immagini, suoni e sensazioni da perdere la percezione del contesto, è come se vedessi soltanto le onde e allo stesso tempo le proiettassi nella mia mente, amplificandole. Vedevo solo questo:

Quindi mi sono svegliato e ho fatto ciò che di più naturale potesse esserci: documentare. Il video qui sopra è un estratto di svariati minuti di slow motion, ma è il frammento che meglio riesce a raffigurare quella scena così potente.

Il vento era molto forte, dentro di me si stava combattendo una battaglia che avrebbe decretato la possibilità di guardare o meno quelle onde dall’alto. Nei giorni passati avevo fatto volare il drone in condizioni forse addirittura peggiori, avvalendomi di una sana dose di incoscienza, ma stavolta, sarà stata la condizione dell’oceano, saranno state le onde alte, non lo so, avevo un po’ di paura; era come se stavolta non riuscissi a “superare quell’ostacolo” che nei giorni trascorsi non mi aveva impedito di spararlo in aria, incurante (poco curante) di vento, pioggia e gabbiani.

Poi, come al solito, la curiosità ha avuto la meglio e la sicura è scattata.

Ho pensato alla “bravata” del giorno precedente: avevo provato a farlo volare in mezzo all’arco di roccia, a Shawbost (e sembra che ci sia riuscito); una manovra discretamente azzardata, di certo non aiutata dalle condizioni atmosferiche.
Dico: “Al confronto, questo è una bazzecola”.
…no?

E poi ho rischiato di perderlo. Mentre impostavo delle robe dal controller non mi stavo rendendo conto del fatto che il vento lo stesse portando fuori, verso il mare aperto. Ero entrato nelle impostazioni lasciando l’inquadratura con un bel pezzo di scogliera a destra, sono uscito dalle impostazioni con solo acqua nel frame.
Ho pensato: “Va beh, si sarà spostato un po’ verso l’esterno”.
Ho guardato l’indicatore della distanza: 420 metri.

Momento di panico, ho alzato immediatamente la telecamera e visto, piuttosto distante, la scogliera che un paio di minuti prima era esattamente sotto il drone.
Modalità sport, velocità massima, raddrizzo la rotta e punto verso la spiaggia dove eravamo io e Fortunato: niente.
420m, 430m, 440m, 450m: il vento continuava ad allontanarlo, nonostante stessi puntando nella nostra direzione. Ad un certo punto, preso da un momento di panico, tiro con forza la leva della quota verso il basso.
460m, 470m, 475m, 480m, 485m, 490m, 485m, 470m, 460m, 450m…
Facendolo scendere di quota aveva lentamente ripreso ad avvicinarsi. Con l’adrenalina a mille ho continuato a riportarlo da me; credo di aver rischiato di rompere le leve del joystick per la pressione che, senza rendermene neanche conto, stavo esercitando con i pollici. E Dronaldo, il fenomeno, è tornato alla base. Ce la siamo vista brutta, ma la vista dall’alto, come sempre, è valsa la pena.

Forse uno dei motivi per i quali sono così affascinato dal drone è perché, avendo “paura” (più o meno) di volare, posso mandare lui a osservare dall’alto per me. Allo stesso modo sarebbe interessante poter avere un piccolo sottomarino da comandare a distanza, per poter guardare cosa c’è sotto senza dover necessariamente perdere 15 anni di vita. Magari si arriverà anche a questo, chissà.

Ad ogni modo.

È incredibile quanto io sia così tremendamente affascinato da un qualcosa (l’oceano, l’accquaalta, la profondità) del quale, di fatto, ho una paura fottuta, ma il mio rapporto con la “paura” è sempre stato costruttivo, nei limiti del possibile. Avevo paura degli scivoli all’acquapark, poi un giorno ho detto “ma si, prima o poi lo dovrò fare”, è così è stato. Non mi sarò appassionato, tutt’altro: ho avuto una dimostrazione empirica della mia mancanza di attrazione per queste attrazioni. Ma l’ho fatto. Certo, non sto dicendo che domani mi infilo in una muta da sub e mi immergo al largo dell’Atlantico, ma a modo mio ho già sfidato più di una volta questa mia “FAA”, cercando di tenerla sempre a bada, aiutandomi come potevo (ad esempio tenendo sempre un occhio al fondale). Fare snorkeling e immersioni è sempre stata una cosa che mi ha affascinato molto, penso che la vita sottomarina sia uno degli aspetti della natura più strani e particolari che ci siano, forse un giorno mi deciderò a esplorare qualche scogliera e, perché no, fare qualche foto.

Mai come in questo viaggio ho avvertito in maniera così forte il dualismo tra paura e stupore. Osservare le onde in preda ad un mix di terrore e attrazione, camminare dove fino a qualche ora prima non c’era altro che acqua, guardare il drone sballottato a destra e a sinistra dal vento e, nonostante ciò, mandarlo ad esplorare in alto, in lungo e in largo. Mai prima d’ora mi sono sentito così “connesso” con la natura, pur provando sempre un forte timore reverenziale, con conseguente overdose di rispetto. Parlerò anche del mio rapporto con la natura, prima o poi.

Mentre scrivo sto notando che l’oceano si è notevolmente ammansito e la luce è aumentata; questo è ciò che vedo dal finestrino:

Sto parlando come se il viaggio fosse concluso, ma effettivamente è così. Sarà per questo che mi è partito il momento riflessivo, oltre che per “colpa” delle onde di un paio d’ore fa.

In fondo, avevano ragione i bambini a cappottarsi felici e gli scozzesi a colazionare sereni: siamo arrivati.

Sembra prospettarsi una bella giornata, magari si riuscirà a combinare qualcosa prima di rientrare a Largs.

Intanto sono vivo e ho fame.

13/03/2019

Ed eccoci qui, davanti al computer, a impaginare e integrare, corredando di foto e video queste riflessioni scritte. Non avevo un’idea precisa di come presentare queste immagini, l’unica cosa certa è che, in situazioni di contemporaneità al momento della scrittura, sono state acquisite contestualmente alla stesura del post stesso, con le dovute pause dalla digitazione. Nella mia testa la “condivisione” è un’esperienza di immersione; è impensabile, per me, raccontare qualcosa senza ampliare (dove possibile) il semplice testo con un supporto visuale/sonoro. Questa forma di scrittura “retroattiva” è una sperimentazione in corso, una proto-idea di come poter condividere contenuti di viaggio, legati ad una particolare situazione, pur non potendolo fare “al momento”. Continuerò ad approfondire, scrivendo “in loco” e arricchendo prima della pubblicazione. Le date aiuteranno. Spero che ciò possa risultare interessante.

Ah, dopo tutto ‘sto ambaradan di onde, senzazioni, emozioni, sballottamenti, droni eccetera ci siamo concessi una degna colazione:

Colazione di For

Porridge con frutta + cappuccino

Colazione di AL

Bagel con salmone affumicato e uova