Canili

Breve storia “triste ma felice”

[Questo reportage è stato realizzato il 3 novembre 2019, la prima stesura del post è contestale alle foto scattate]

Ci sono dei luoghi dei quali non è sempre facile parlare, per una moltitudine di motivi.

Ho avuto la grande fortuna di essere per metà discendente di montanari; ciò mi ha portato, oltre a ereditare una testa dura come la roccia del Corno Grande, ad avere la possibilità di spendere buona parte della mia infanzia (e non solo) in montagna, respirando aria buona, giocando all’aperto e facendo cose che mi hanno portato, inevitabilmente, ad amare la natura (e a odiare l’uomo) [forse ho leggermente esagerato, ma si capisce il concetto].

Negli ultimi anni non sono tornato molto spesso a Canili, paese d’origine di mia madre, a casa dei miei nonni.

Non so dire effettivamente perché.

Sicuramente, da un certo momento in poi, perché tutte le volte in cui i miei genitori andavano lì io ero impegnato per lavoro… e non credo di ricordare una singola volta, oltre questa, oggetto del reportage, nella quale io sia andato lì da solo. Anche qui, difficile stabilire una ragione, ci sono cose che semplicemente “sono così”, le senti in un modo, le fai in un modo, c’è poco da spiegare. A posteriori, cercando di guardarmi dentro, posso ammettere a me stesso di essere pentito di questa mia latitanza in un luogo nel quale sono state scritte molte pagine della mia vita; eppure, come ho appena scritto: certe cose accadono perché accadono.

Esattamente, perché sto scrivendo? Per tirare fuori qualcosa, come sempre.
Stamattina avevo un gran bisogno di scattare qualche foto, e mi sono trovato, senza pensarci, a pensare (?) a quanto tempo è passato dall’ultima volta che sono stato a Canili. Sarei uscito così, con la macchina fotografica e due-tre obiettivi, per andare a cercare l’autunno, invece ho preso il 35mm (sempre lui) e il drone. Così, sportivo. Sono salito in macchina e mi sono diretto verso il paese.

Gli ultimi eventi sismici lo hanno profondamente segnato, lasciandolo ormai disabitato. Dalle ultime scosse, sia al terreno che alla vita nel paese, non sono più tornato a vedere, fino a stamattina. Volevo rendermi conto di come fosse ora, tra case inagibili e cani liberi di circolare (anche se questa cosa, effettivamente, non è mai cambiata).
L’impatto, con l’impalcatura all’ingresso della strada principale (nonché unica), non è stato dei migliori. Immediatamente ho avuto la sensazione che quello non fosse “lo stesso posto” in cui ho trascorso buona parte della mia vita. Ho preso “coraggio”, montato il 35mm sulla macchina fotografica e ho iniziato a camminare tra gli edifici “ingessati”. Man mano che avanzavo, avvicinandomi alla casa dei miei nonni, le immagini di vari momenti trascorsi lì si affollavano nella mia mente, sovrapponendosi e rendendosi a tratti nitide, ben distinte, a tratti fumose e appannate.

Ricordi di decine di legnetti a cui ho fatto la punta con il coltello di mio padre, dei conigli, che ogni tanto vedevo ammazzati da mia nonna ma che non smettevo di voler accarezzare e prendere per la collottola, delle galline, dei sacchi di grano nei quali spesso e volentieri immergevo entrambe le mani perché amavo (e amo tuttora) quella sensazione, dell’ormai “ex” albero enorme, proprio oltre casa dei nonni, della croce di ferro sulla quale mi arrampicavo, dell’odore di letame, tanto fastidioso quanto “naturale”, della montagna all’orizzonte, unica cosa rimasta immutata… e innumerevoli altri. Tra un ricordo e l’altro, travi di legno ovunque, a rompere un’armonia per cercare di mantenerne un’altra. A sorreggere tutto, meno che il mio animo, sempre più affannato.

Ho scattato, scattato e ancora scattato, senza pensare, praticamente senza comporre, ho scattato per documentare, per poter mostrare quello che è soltanto un granello di sabbia nel deserto dei disastri post-sismici. Quella che è soltanto una piccola testimonianza – la mia – di un luogo nel quale, anni fa, la vita svolgeva il suo corso, tra galline, cavalli, tacchini, maiali, pecore, cinghiali, grano e chi più ne ha più ne metta.

Per la prima volta, nel camminare in quel paese, mi sono sentito tanto a disagio per ciò che vedevo quanto rasserenato dalla certezza pressoché totale di non essere osservato, attraverso le finestre, dagli abitanti (perché, si sa, nei paesini nessuno si fa mai i cazzi suoi, e in questo la targhetta sulla porta di casa dei miei nonni la dice lunga). Per la prima volta ero realmente solo, non c’era nessuno oltre a me, a parte un pastore abruzzese trasandato, che dopo qualche esitazione iniziale si è avvicinato e mi ha seguito per tutto il mio pellegrinaggio tra frammenti di ricordi e frammenti di paese. Ancora una volta, scortato e “protetto” da un cane appena incontrato.

Penso che mai come in questo caso sia appropriato parlare di nostalgia. Rivivere momenti remoti in un luogo che porta tanto i segni del tempo quanto quelli delle vessazioni subite. Una sorta di scenario post-apocalittico in miniatura, dove gli unici zombie erano i ricordi, in agguato dietro ogni angolo.

Ho voluto scattare per raccontare. In bianco e nero, nonostante l’autunno fosse nel pieno della sua espressività cromatica. Ho fatto volareil drone, cosa che avrei voluto tanto poter fare prima che tutto ciò accadesse, prima che pali di legno si alzassero ovunque tra le case. Prima che i ricordi venissero offuscati da quella fitta coltre di nebbia.

Mentre scrivo queste righe mi sento, in un certo senso, rappacificato con me stesso. Come se avessi fatto visita ad un amico malato, “prima che fosse troppo tardi”. Avverto ancora quel marcato dualismo, la contrapposizione tra la felicità per essere tornato lì e la tristezza per essere tornato, apparentemente, in un altro posto. Ma in realtà, come si dice: “Home is where your heart is”. In questo posto c’è una parte di me e, non essendo molte le persone che lo hanno abitato, posso dire di sentirmi, a modo mio, un po’ importante, lì. A Canili ero, sono e sarò “Lu fij di Giuvannìn”, “Lu fij di Marrij”, “Lu nipòt di Duminicuccij”, “Lu nipòt di Laurin”.

E queste foto serviranno a condividere una parte della mia vita, seppur malconcia, e a ricordarmi di tornare, sempre più spesso. Perché, almeno la montagna, è sempre quella, ed è rassicurante constatare che, almeno alcune cose, non cambieranno mai… non entro la nostra aspettativa di vita, perlomeno.

E che non c’è terremoto abbastanza forte da poter far crollare i ricordi.

Cheers.