Чорнобиль

Chernobyl

Non so da dove cominciare, ma ci provo lo stesso.

Sono di ritorno da Kiev, dove sono stato in trasferta con la LEN per coprire i Campionati Europei di Tuffi – DivingKyiv2019 dal punto di vista video. In questo momento sono in aereo e sto assistendo a uno dei fenomeni più affascinanti che mi sia mai trovato davanti agli occhi: luna piena in cielo, stelle e una distesa di nuvole bianche illuminate a intermittenza dai bagliori di una tempesta di fulmini. Vorrei solo che si spegnessero tutte le luci dell’aereo.

Ad ogni modo, questa era una premessa per contestualizzare.

Al termine del campionato ci siamo presi un giorno in più per visitare Černobyl’ (e, ovviamente, Pryp”jat’, la città fantasma). Premetto che non ho visto la serie TV. Sicuramente lo farò, dato che ne ho sentito parlare un gran bene, ma nel momento in cui Giorgio ha proposto di visitare il luogo, mi sono ben guardato dal decidere di iniziarla. Un po’ come quando uscì il primo film della trilogia del Signore degli Anelli: prima di vederlo aspettai di leggere tutti e tre i libri… e che sfumasse un po’ la “moda” per la quale tutti improvvisamente erano appassionati di fantasy. In questo momento, con Černobyl’, sta accadendo un fenomeno che avrei potuto tranquillamente includere nel mio post sull’epidemia di schifezze che stanno generando i social network, ovvero un’esplosione del cosiddetto “turismo macabro”, quello verso luoghi che sono stati teatro di avvenimenti tragici. In questo post, tuttavia, voglio parlare delle mie sensazioni; tralascerò, pertanto, i greggi di pecore accorsi, smartphone alla mano, a caccia dell’ennesimo selfie uguale a cento altri e l’imbecille che, raccolta una barra di ferro da terra, la sbatteva contro un bidone di metallo, nella torre di raffreddamento della centrale, per sentire l’eco. Il “disastro di Černobyl'” è un pezzo di storia moderna e come tale lo considero, come l’evento tragico che è stato, con tutte le conseguenze che ha portato con sé, con timore reverenziale e tanta suggestione. Una volta a Kiev non si può non approfittare dell’occasione, avrei preferito che la serie fosse uscita “dopo” la nostra visita, ma va beh. Si conclude qui il pippone di benvenuto.

Ah, ovviamente non c’è nulla di “eroico” nell’andare a Černobyl’, a livello di radiazioni è più o meno come farsi due giorni a Milano.

Abbiamo visto il nuovo sarcofago, da poco ultimato e collocato a coprire il reattore, per isolare il nocciolo; il più grande prefabbricato mai realizzato nella storia, costato l’equivalente di due miliardi di euro, mi pare di ricordare, sotto il quale avverranno le operazioni di smaltimento di ciò che resta del reattore (con tecniche e tecnologie ancora in fase di definizione). Per quanto la valenza storica del posto in sé sia elevatissima, in quanto punto centrale del fatto, ho visto la visita lì più come una pratica “istituzionale”. Abbiamo visitato sia il sito del reattore che i suoi dintorni, dove ci sono stati mostrati (da lontano) i cantieri dei reattori numero 5 e 6, la cui costruzione non è mai stata ultimata, e la torre di raffreddamento, che invece abbiamo visitato – quella del cretino che batteva sul bidone, per capirci.

Abbiamo anche visitato il “Radar”, struttura costruita per captare la presenza di missili diretti verso il suolo russo, già obsoleto al termine della sua costruzione in quanto “soppiantato” da sistemi satellitari. Una struttura davvero imponente e fotograficamente interessantissima, tant’è che abbiamo insistito per vederla e non ce ne siamo certamente pentiti. Ho passato tutto il tempo della visita lì a chiedermi come si possa anche lontanamente concepire la realizzazione di un’opera del genere, per non parlare della sua costruzione (e della manutenzione). “A bocca aperta” è l’espressione giusta. Non che ciò sia strettamente collegato con Černobyl’, era lì, siamo andati a visitarlo e ne è valsa decisamente la pena. Non ne parlerò oltre, vi lascerò delle immagini per dare un’idea dell’imponenza di tale struttura, provate ad immaginare la sensazione nel camminarci “sotto”.

La parte più sconvolgente dell’intera visita è stata, provate ad indovinare… Pryp”jat’.
Cronologicamente la prima cosa che abbiamo visto, la cito per ultima in quanto il fulcro delle mie riflessioni parte proprio da qui. Prima notizia sconvolgente: la città, praticamente ad un tiro di schioppo dal famigerato reattore numero 4, è stata evacuata soltanto 36 ore dopo l’incidente. Tempo più che sufficiente per le polveri di depositarsi su qualsiasi cosa, persone incluse.

Abbiamo visitato la famosa piazza della ruota panoramica, landmark indiscusso, anch’essa punto di forte interesse fotografico. Colpisce, indubbiamente, ma non è neanche questo il punto.

La prima cosa che colpisce, arrivando a Pryp”jat’, è la vegetazione. Dopo 33 anni la natura ha totalmente ripreso il controllo dell’area e quelle che prima erano le strade della città sono ora aree ricoperte di alberi, arbusti, cespugli, fiori e chi più ne ha più ne metta. La guida ci ha anche chiesto se volessimo mangiare una mela raccolta sul momento e io ho accettato. Poco dolce, ma non male. Gli edifici sono completamente circondati dalla vegetazione, gli alberi sono talmente fitti da impedire di notare una costruzione finché non ci sei a poche decine di metri. Sarebbe stato veramente interessante poter fare delle foto con il drone, se dovessi mai capitare nuovamente a Kiev penso che ci tornerò soltanto per quello. Vedere dall’alto come il verde abbia ormai invaso tutta l’area della “Città Fantasma”. È un sollievo vedere come, nel disastro, la vita stia pian piano riprendendo tempi e spazi che le appartengono, aiutata certamente dall’assenza di presenza umana. Ma la flora e la fauna, che rappresentano la vita, la rinascita, se vogliamo, vanno in netto contrasto con lo stato in cui verte la città. Uno stato di totale abbandono e devastazione. Uno scenario in tutto e per tutto definibile “post-apocalittico”. Con superficialità si potrebbe pensare che tale condizione sia una conseguenza dell’esplosione avvenuta all’interno del nocciolo, ma non è così. L’esplosione in realtà fu molto contenuta e il danno fu costituito dalla fuoriuscita delle polveri che, trasportate dai venti, viaggiarono verso nord-ovest, ma non solo.

Ciò che ha portato allo stato attuale in cui verte la città di Pryp”jat’è… l’uomo.

Il vandalismo, il saccheggio, dapprima ad opera di pochi pazzi, che distanza di pochissimo tempo dal fatto si recarono nella città, poi più organizzato, in proporzioni “industriali”. Ho provato un forte senso di disorientamento camminando tra le macerie, tra i detriti, tra i resti di ciò che 33 anni fa era “vivo”: abitazioni, uno stadio, un asilo, una fabbrica che produceva radio, ma in realtà realmente lavorava segretamente per l’esercito. Disorientamento, tristezza, malinconia, ogni singolo frammento di vetro a terra mi trasmetteva questo. Ogni scarpa abbandonata, ogni bambola, ogni sedia rotta, su ogni oggetto è possibile vedere i segni di una violenza senza uguali, di una mancanza di rispetto nei confronti di ciò che prima rappresentava la quotidianità di 49.000 abitanti e che, da un giorno all’altro, è diventato un alveare vuoto, abbandonato, deprivato di tutto il miele e, come se non bastasse, distrutto e lasciato lì, a marcire.

Una città privata della sua dignità, deturpata della sua essenza, spolpata fino alle ossa, nude, logorate ed esposte al tempo e agli agenti atmosferici. Il danno e la beffa.

Camminare tra quei resti è stata un’esperienza che non dimenticherò mai, una delle più forti che abbia mai vissuto. Ricordo un simile impatto quella volta in cui svoltai a sinistra, alla fine del percorso che porta a Talisker Bay, sull’isola di Skye (Scotland, UK) per trovarmi dinnanzi la maestosità di quella parete di roccia… un’immagine che si è scolpita nella mia mente. Simile soltanto per “l’impatto”, totalmente opposta per l’atmosfera.

Sarà che sono troppo sensibile ma questo è stato ciò che mi è stato trasmesso dal luogo, dagli scenari e da tutto ciò che rappresentano.

Ovviamente tutto ciò ha destato il mio interesse fotografico, pertanto ho scattato. Restavo sempre indietro rispetto al gruppo perché… ogni singola cosa catturava la mia attenzione. Essendo io malato di dettagli, non riuscivo a non notare una scritta, un foglio strappato, un pacchetto di sigarette, un pennarello rosso e chi più ne ha più ne metta. Per interesse “documentaristico” sarei rimasto lì una settimana, avrei esplorato ogni singolo anfratto di quella città abbandonata. Non ho esclusive, non sono andato lì su mia proposta, non ho fatto nulla di nuovo, nulla che non sia già stato fatto. Ho cercato, come sempre, di guardare con i miei occhi. Ho cercato di restituire una mia visione di quel posto. Non ho cercato foto prima, per cui non sapevo davvero cosa aspettarmi. Un luogo tremendo e affascinante, un misto di sensazioni difficile da assimilare.

Tutti gli scatti presenti in questo post sono realizzati con una Contax 167MT + Carl Zeiss T* Planar 50mm f/1.4, su pellicola CineStill 800T,  consigliatami da Corrado in seguito a una chiacchierata durante la quale gli ho parlato della resa cromatica che avevo in mente per questi scatti. Sono pienamente soddisfatto del risultato, in quanto cercavo esattamente questo tipo di risultato e, grazie a questa pellicola, sono riuscito ad ottenerlo senza post-produzione.

Ho realizzato anche numerose foto digitali, ma non intendo pubblicarle per ora. Nella mia testa, appena ho appreso della possibilità di andare a Černobyl’, ho subito avuto l’immagine di un reportage realizzato in analogico; questa è stata, pertanto, la mia prima “preoccupazione”.

PUBBLICHERO’ IN SEGUITO DELLE GALLERY CON LE FOTO DIGITALI, nelle quali mi soffermo un po’ di più sui dettagli e aggiungo anche delle foto con più “contesto”.

In fondo sarebbe ipocrita da parte mia dire che il mio unico scopo era quello di “visitare un pezzo di storia”, di partenza c’è sempre stato l’intendo di fotografarlo. Così come ho voluto cercare un risultato fotografico senza post-produzione, per quanto riguarda il lavoro in analogico, anche per quanto riguarda gli scatti digitali ho utilizzato una post-produzione mirata, non invasiva, con un feel anche qui molto “analogico”. Ho realizzato esattamente ciò che prefiguravo nella mia testa al momento dello scatto. Non penso che le foto possano mai rendere al meglio ciò che ho catturato con i miei occhi e fissato nella mia mente ma sicuramente possono darvi un’idea di ciò che c’è lì, ora.

Una cosa della quale sono stato, stranamente, felice, è stata la pressoché totale assenza di nuvole, se non nell’ultimissima parte del viaggio. No, non sto male, è proprio così: non volevo che ci fossero elementi “esterni” a caratterizzare gli scatti. Quel cielo blu, sul quale spicca la grana della pellicola, è esattamente ciò che volevo.

Non saprei davvero come concludere questo post, pensavo di voler scrivere un paio di righe accompagnate da molte foto, alla fine ho scritto un papiro infinito accompagnato dagli scatti del reportage a pellicola. Non ho tirato fuori il telefono se non per scattare un paio di foto, perché non avevo con me un obiettivo grandangolare ed era l’unico modo che avevo per catturare quelle scene nella loro interezza. Avevo già deciso, prima di partire, che non avrei utilizzato il telefono, non avrei fatto storie, non mi sarei geolocalizzato né sarei comparso in prima persona. Volevo vivermela “a modo mio”, come la mia testa mi suggeriva di fare, e penso di esserci riuscito.

Riepilogare le mie sensazioni? Se ho sentito il bisogno di allungarmi e di scrivere così tanto, non credo che avrebbe senso, ora, cercare di sintetizzare. Ciò che posso dire è che consiglio, qualora ne abbiate la possibilità, di andare a visitare questi luoghi. Che il vostro intento sia simile al mio, che siate anche voi fotografi, che nutriate solo interesse nei confronti di una parentesi tragica della storia dell’umanità, quello che vi pare, ma consiglio di fare quest’esperienza, pensando a tutto ciò che rappresenta. Un selfie fatevelo, se volete, ma non esagerate.

Rispettate un luogo che di rispetto ne merita tanto.

Spero di non avervi annoiati troppo e, soprattutto, che le foto siano state una buona testimonianza di quella che è stata questa visita decisamente “fuori dal comune”.

Grazie di cuore a tutti voi che avete letto fin qui.

Cheers